L’altro giorno dovevo scendere a fare delle commissioni totalmente superflue e irrilevanti, sia ai fini di questa storia che della vita in senso più ampio. Lo dico perché poco prima di varcare l’uscio di casa avvertivo l’inequivocabile stimolo di dover fare la cacca, stimolo che sceglievo deliberatamente di ignorare sebbene l’entità effimera dei servizi da svolgere facesse pendere di gran lunga l’ago della bilancia sul piatto della sopracitata merda.
La verità è che all’origine di questa scelta vi è una forte presa di posizione per quanto riguarda il concetto di libertà individuale. Per me, che ho sicuramente dei problemi di varia natura, poter scegliere quando evacuare o meno a prescindere dal richiamo fisiologico è senza dubbio una delle più nobili definizioni che si possono attribuire a un uomo libero. Un’altra è sicuramente quella di potersi togliere i nippoli dall’ombelico senza curarsi dell’altrui sguardo, ma questa è un’altra storia.
Tornando a noi, quel giorno, da uomo libero, decidevo di scendere di casa senza aver fatto la cacca. Ora, se è vero che nella narrativa drammatica è impensabile –o quantomeno ingenuo – auspicarsi un sereno svolgimento a seguito di una così importante premessa, il lettore più attento avrà capito che quel giorno ho rischiato tragicamente di cacarmi addosso. Per farla breve, a ogni passo lo stimolo diventava una concreta evidenza, la concreta evidenza si tramutava in bisogno impellente, il bisogno impellente si manifestava attraverso dolore fisico e alterazione percettiva della realtà. Era il panico, nella sua forma più pura e più sublime.
Le tinte iniziavano a mescolarsi e i contorni a sfocare, i suoni della città incalzavano rapidamente in una sinfonia di rumore bianco, e ben presto mi ritrovai a vagare nell’oblio orchestrato dalle fitte della mia cacarella. I minuti passavano, e iniziavo a chiedermi vigliaccamente se non fosse il caso di chiedere aiuto dissimulando il mio disagio, stringendo i denti e dirigendomi verso un bar o un qualsiasi luogo pubblico dove avrei potuto liberarmi delle mie afflizioni barattando il temporaneo utilizzo di un freddo cesso di porcellana bianca in cambio dell’acquisto di, chessò, un pacchetto di gomme.
Ma un uomo libero non si perde d’animo, men che meno si presta a meccanismi sociali emblematici del fallimento totale della civiltà occidentale, quale per l’appunto entrare sorridente in un negozio chiedendo di poter utilizzare il bagno. Nel ripetermi questo proseguivo con orgoglio il mio incedere, la mia personale battaglia. L’uomo contro la natura. Ahab e la balena bianca.
Sul tragitto del ritorno la mia andatura non era diversa da quella di un morto vivente. Il ritmo dei miei passi era dettato più che altro dagli spasmi e dalle contrazioni muscolari delle mie chiappe, e in diverse occasioni ho dovuto sedermi nella speranza che una superficie orizzontale potesse ottemperare alla funzione di tappo. Giunto a circa duecento metri da casa ero ormai rassegnato all’idea che mi sarei cacato sotto, lì, davanti agli occhi di tutti.
Ad oggi non so ancora bene da dove attinsi le ultime energie che mi condussero alla soglia, né quanto potesse materialmente pesare quello che, con tutta probabilità, resta il mio parto più prolifico e liberatorio di sempre.
Se dovessimo trovare una morale a questa storia, diremmo senz’altro che talvolta l’essere umano ha bisogno di assecondare i propri istinti nel preciso istante in cui essi si presentano, anche discapito del proprio orgoglio e della propria integrità. Un po’ come l’amore. Ma questa storia non ce l’ha una morale. Né tantomeno parla d’amore. Questa storia fa schifo. Quando Davide ha deciso di darmi carta bianca per scrivere qualsiasi cosa volessi su “Resto di Sasso”, dubito si aspettasse una storia di merda. Eccola qua.
Una storia di merda – Vittorio Somma
